Marxismo e aborto
L’abortismo, dopo una rincorsa iniziata con il primo femminismo agli inizi del 900, esplode negli anni 60 e 70 sull’onda della cosiddetta “Rivoluzione sessuale”. Quest’ultima rientrava nel più ampio fenomeno sociale ricordato come “Contestazione”, di cui il 68 francese è icona, e di cui il comunismo è stato l’anima. L’abortismo è di fatto una secrezione ideologica della sinistra politica, del suo ateismo e del suo materialismo, ma con un’annotazione.
L’idea della libertà di aborto come oggi è intesa, proviene dal pensiero marxista elaborato in ambiente borghese, non dal pensiero originale marxiano, che non si è mai soffermato né sul controllo delle nascite in genere, né sull’aborto in particolare.
Quando, lungo la prima metà dell’800 , si sviluppò un dibattito sul “malthusianesimo” ( controllo delle nascite pianificato) nel quale intervennero gli esponenti del primo socialismo francese e tedesco, Marx disse che il problema non era costituito dalla fecondità delle classi povere ma dalla cattiva distribuzione delle risorse, e che l’avvento di un’economia socialista avrebbe superato qualunque problema di sovrappopolazione.
Fu il marxismo-leninismo a far proprio l’abortismo, quando la Russia sovietica lo legalizzò il 18 novembre 1920. Nei suoi scopi dichiarati, il decreto emanato da Lenin mirava a rimediare alla pratica degli aborti clandestini e alle maternità indesiderate in una popolazione generalmente povera.
La legge leninista presentava sì l’aborto come segno dell’emancipazione femminile, ma non nell’odierna accezione del termine: l’emancipazione era posta in relazione con l’entrata della donna nel mondo del lavoro.
In quest’ottica la legalizzazione dell’aborto in Unione Sovietica, mirava a che la donna fosse “padrona di se stessa”, in una logica di funzionalità, rispetto ai modi e ai tempi del lavoro negli uffici e nelle fabbriche. Non era stato quindi affermato, questo è il punto, il diritto di uccidere il proprio figlio a qualunque titolo e per qualunque motivo, in virtù dell’odierno principio dell’autodeterminazione della donna, che concepisce la libertà di aborto come un “valore”.
Non per nulla, la Russia di Stalin, posta di fronte alla denatalità catastrofica che seguì la liberalizzazione dell’aborto, lo vietò per legge il 27 giugno 1936.
Quanto detto non sta ovviamente a significare che il pensiero di Marx fosse apprezzabile e che la legge abortista di Lenin fosse in qualche modo migliore di altre, né si sottintende un apprezzamento dello stalinismo.
Si annota soltanto che la “cultura della morte”, come la definì Giovanni Paolo II, non è sorta nei circoli operai ma nei pensatoi borghesi e nelle logge massoniche.
La buona borghesia USA e il culto della trasgressione
Tra la fine degli anni quaranta e l’inizio dei cinquanta, un gruppo di intellettuali “progressisti” (Burroughs, Cassady, Kerouac, Ginsberg ed altri), dette vita negli USA ad una corrente di pensiero, la Beat Generation, che invitava ad infrangere le regole della morale corrente. Il “mondo nuovo” nasce con loro.
Una volta i passaggi di generazione ispiravano movimenti culturali e letterari. L’America del primo dopoguerra dovette accontentarsi di individui come William Burroughs (1914-1997), celebrato da Jack Kerouac e Allen Ginsberg come padre spirituale della Beat Generation, che definiva se stesso: “drogato omosessuale, pecora nera di buona famiglia”.(1)
Non si trattava di una confessione ma di un vanto: il gruppo esortava alla trasgressione, concepita come forza “liberatoria”.
In questa logica i circoli Beat ostentavano uno stile di vita on the road corredato di omosessualità, alcolismo e uso di droghe, sullo sfondo di un nichilismo assoluto.
Questi attempati intellettuali erano alchimisti al contrario: alla loro scuola, la rettitudine divenne vizio e il vizio, virtù.
Il messaggio incantò la borghesia americana (Ginsberg si lamentava delle montagne di telegrammi), poi tracimò sulle nuove generazioni. I primi che ci cascarono furono gli Hippie, all’inizio degli anni sessanta, i “Figli dei fiori”.
Il messaggio hippie oscillava dallo spirito anti-borghese al pacifismo, dal culto dell’Oriente all’ostentazione di una sessualità “liberata”.
Punto fermo dell’orizzonte esistenziale hippie, sulla base dei buoni insegnamenti dei Beat, era l’assunzione di droga: hashish, marijuana e allucinogeni, vere anticamere della pazzia, questi ultimi, come l’ LSD (acido lisergico) e il peyote (piccolo cactus usato dagli sciamani del Messico settentrionale per accedere a mondi “paralleli”).
La religiosità, neanche a dirlo, era “alternativa”, un intruglio di induismo, buddismo e culto animistico della natura, deputato a che evocare “energie sopite”nell’uomo.
Non mancò all’appello neppure il satanismo, praticato dal gruppo di Charles Manson, che nell’agosto del 1969 compì la famosa strage di “Cielo drive” a Los Angeles, con il massacro di cinque persone. Molti hippie ammisero che quell’episodio era in realtà farina del loro sacco, esito fatale di un ossessivo culto della trasgressione.
Il movimento Hippie, tra tossicodipendenza e parassitismo sociale, fu una scuola del nulla, ma era un nulla “organizzato”: gli hippies avevano ben poco dell’avanguardia che percorre sentieri inesplorati, lontani dal Sistema.
Se così fosse stato, sarebbero stati degni di considerazione.
Il movimento appariva piuttosto una mandria incanalata lungo percorsi ben noti al Sistema, a partire dai consumi voluttuari. Grazie agli Hippie prosperò il mercato discografico, dei concerti di massa e dell’abbigliamento “di area”. Soprattutto da allora prosperò – e non si è più fermato- il mercato mondiale della droga, con grande soddisfazione delle banche d’investimento internazionali che riciclano i narcodollari ( non si vede quale altra strada possano percorrere gli smisurati profitti del narcotraffico per reimmettersi nell’economia legale delle nazioni) . In realtà il movimento beat e la sua costola hippy, di rivoluzionario non avevano nulla. L’anarchia dei Figli dei fiori non era che la versione vegana dell’esistenzialismo liberal americano, ateo e materialista, racchiuso nel principio proclamato da un protagonista del romanzo “ I demoni” di Dostoevskij: “Se Dio non esiste, allora tutto è permesso”.
Dunque è permesso anche uccidere il proprio figlio con un aborto volontario.
Per ulteriori riflessioni sull’aborto vedi:
“Approfondimenti”- Documento n.1)
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__Note
1) https://frasidiognigenere.it/magazine/william-burroughs-il-drogato-omosessuale-pecora-nera-di-buona-famiglia